
Vahan Ter Arakelyan: Quando la musica salva la vita
di Carlo Coppola
La storia del popolo armeno è un mosaico di sofferenza e trionfo, intessuto con fili di dolore profondo ma anche di straordinario coraggio e dignità. Tra le innumerevoli vicende che compongono questo affresco, quella di Vahan Ter Arakelyan, sopravvissuto al Genocidio Armeno del 1915, emerge come un potente simbolo di resistenza spirituale. La sua voce, unita all'antico lamento popolare "Dle Yaman", squarciò le tenebre della morte, testimoniando la resilienza dell'identità armena anche in uno nei momenti più bui dell'annientamento. Vahan Ter Arakelian dopo la morte scampata sarebbe diventato famoso anche come traduttore oltre che come musicista. Grazie a lui, i lettori armeni ebbero l'opportunità di conoscere molti esempi eccezionali della letteratura mondiale, come Anna Karenina di Lev Tolstoj e Il buon soldato Švejk di Jaroslav Hasek, durante la seconda guerra mondiale. Ter-Arakelian si dedicò in particolare alla poesia russa traducendo di Puškin, Esenin, Majakovskij e Gorkij.
Nato alla fine dell'Ottocento in un villaggio dell'Impero Ottomano, Vahan era un giovane immerso nella ricchezza della musica e delle tradizioni popolari armene. La sua famiglia, come innumerevoli altre, viveva sotto la crescente pressione di un impero che intensificava la repressione contro le minoranze cristiane. Quando, nel 1915, fu emanato l'ordine di deportazione e sterminio degli armeni, Vahan fu strappato ai suoi affetti e costretto a unirsi a una delle "marce della morte" verso il deserto siriano, un viaggio che per la maggior parte dei prigionieri significava la fine.
Le testimonianze orali, raccolte nel dopoguerra e tramandate nella diaspora armena, narrano un episodio che ha del miracoloso. Durante una sosta forzata della marcia, un ufficiale turco, forse stremato o forse incuriosito, ordinò ai prigionieri di intrattenerlo. Vahan, sull'orlo della disperazione, si aggrappò a ciò che gli restava di più intimo: intonò "Dle Yaman", un lamento che parla di amore perduto e dolore eterno. Il canto, intriso di una malinconia struggente, incantò l'uditorio. L'ufficiale, toccato dalla potenza emotiva della melodia e dalla voce intensa del giovane, decise di risparmiarlo. Non fu pietà, forse una momentanea debolezza, o forse la pura bellezza della musica a disarmarlo per un istante, ma fu un istante che salvò la vita di Vahan.
Un'altra versione, dal sapore più epico e letterario, narra una vicenda altrettanto drammatica. Ter Arakelyan, militare nell'esercito ottomano come molti giovani armeni in età di leva, si trovava al fronte. L'esercito ottomano stava "ripulendo" le sue fila dalla "contaminazione armena". Vahan fu condannato a morte senza processo. Due commilitoni, incaricati dell'esecuzione, gli chiesero quale fosse il suo ultimo desiderio, cercando forse un gesto di umanità in quella morte insensata. Nonostante fosse incatenato e prossimo alla fine, Vahan iniziò a cantare "Dle Yaman". Terminata la melodia, avrebbe sospirato: "Sono pronto, fate il vostro dovere". I due soldati, sconvolti, si sarebbero guardati e, voltandosi dall'altra parte, gli avrebbero detto di allontanarsi. Ma era un inganno. Mentre Vahan si allontanava, uno dei due avrebbe tentato di colpirlo, mentre l'altro esitava.
In entrambe le versioni, Vahan riuscì a fuggire poco dopo, approfittando del caos delle marce e dell'aiuto di contadini locali. Nel 1936, Vahan Ter-Arakelyan fu arrestato a Tbilisi e inviato in un campo nella Repubblica Socialista Sovietica Autonoma dei Komi, dove morì nel 1941. Solo nel 1960 i suoi parenti riuscirono a trasferire le sue ceneri in patria, dove fu sepolto nel Cimitero Centrale di Yerevan.
Oggi, "Dle Yaman" è riconosciuto come uno dei simboli più emblematici della memoria armena. Reso celebre da interpreti di fama mondiale come Lusine Zakaryan e Djivan Gasparyan, ha assunto un significato universale: è il grido silenzioso di chi ha perso tutto, ma ha conservato la voce e l'anima. Attraverso la sua interpretazione, Vahan Ter Arakelyan ci ha lasciato un messaggio che sfida il tempo e l'oblio: la cultura può essere un'arma formidabile contro l'annientamento, e la bellezza può spezzare, anche solo per un istante, la logica disumana dell'odio.
Il nome di Vahan, pur non comparendo nei libri di storia ufficiali, vive vividamente nei racconti delle famiglie armene, nei cori dei giovani della diaspora e nella profonda commozione di chi ascolta quel canto che, un secolo fa, salvò una vita. In un mondo in cui la memoria del Genocidio Armeno continua a essere negata e ignorata, la vicenda di Vahan Ter Arakelyan è un monito potente: non c'è gesto più significativo che custodire la propria umanità di fronte all'orrore più indicibile. E a volte, quella umanità si manifesta con una voce tremante, che canta nella notte: "Dle Yaman, Dle Yaman…"